Ok, alla fine non è stato così complicato. È questo che ho pensato venerdì 13 marzo 2020, quasi venti giorni dopo aver concesso, ai dipendenti che lo richiedevano, la possibilità di lavorare in smart working. Le prime due settimane, a partire dal 24 febbraio, erano state facoltative, potevano scegliere loro se venire in sede o lavorare da casa, dalla terza settimana, invece, lavorare da casa era diventato obbligatorio. Per la prima volta tutto il personale SPAI operava da remoto e non sapevo cosa aspettarmi. Non ero abituato, io per primo, a non vedere e non sentire i miei ragazzi, ad avere quella strana sensazione di non tenere in mano le redini dell’azienda. Invece, a metà marzo, ho pensato che non era stato poi così difficile, che le commesse proseguivano e i tempi venivano rispettati, con la qualità del lavoro che restava alta.
Mentre leggevo di aziende in grossa difficoltà nel cambiare modalità di lavoro, assieme al mio amministratore di rete ho ripercorso alcune scelte tecnologiche che abbiamo fatto in SPAI a partire dal 2016:
Il mio amministratore di rete, dopo avermi ricordato questi passaggi uno per uno, mi ha confermato che se SPAI era riuscita a mantenere la stessa efficienza in modalità smart working non era per un fortunato caso del destino, ma il frutto di una serie di scelte ponderate. È difficile raggiungere un obiettivo per improvvisazione, è necessario essere lungimiranti. E non bisogna mai pensare di essere arrivati, di essere a posto così, perché si può essere pronti per oggi, ma il domani è un’incognita e bisogna farsi trovare preparati.
Ma c’è un altro importante fattore da considerare quando si passa a modalità di lavoro da remoto: il cambio di mentalità nel rapporto tra titolare e dipendenti e tra gli stessi dipendenti.
Non c’è più un cartellino da timbrare, non c’è più il controllo visivo sulla presenza e l’operatività del lavoratore. Il rischio è che nella tua mente comincino a insinuarsi dubbi e domande: ma stanno lavorando o fanno altro? Hanno raggiunto le ore che dovevano fare oggi? Non staranno scrivendo con la televisione accesa? Dubbi legittimi e ovvi per chi, in un’azienda e nel suo personale, ha investito tanto.
Ci sono diversi metodi per “controllare” chi lavora in smart working. Software più o meno efficienti, in grado di monitorare l’attività su un PC con grande precisione, di capire se, chi ha accesso a quel computer, stia veramente lavorando e non ha, invece, posizionato un robot o un gatto a picchiettare le lettere della tastiera.
Scherzi a parte, questi software ci sono e fanno il loro dovere, ma non è qui che si gioca la partita, a mio parere. La partita dello smart working si vince a livello di mentalità. Il titolare e i dipendenti devono modificare il loro modo di operare e di rapportarsi, i cardini del rapporto non sono più le canoniche ore di lavoro, ma devono diventare gli obiettivi da raggiungere, la qualità alta da garantire.
Io non potrò sapere se il mio dipendente quel giorno ha fatto 6, 8 o 10 ore di lavoro, ma non dovrò preoccuparmene, l’importante è che abbia raggiunto gli obiettivi che aveva fissato per quel giorno e, nel caso non ci sia riuscito, condivida con me le eventuali problematiche sopraggiunte.
Fiducia e senso di responsabilità, sono questi i punti chiave per uno smart working di successo.
Oltre alla tecnologia, ma di quella abbiamo già parlato.
Un grandissimo ringraziamento a Palomar s.r.l. che in questi anni ci ha accompagnato in questo percorso di perfezionamento ed è stato presente anche, ma soprattutto, in un momento come questo.
Fabio Farneti